Incessante divenire
Giangavino Pazzola
Il tentativo di definizione del paesaggio è questione annosa, poiché il tema stesso ci pone davanti a un oggetto di analisi in continua trasformazione. Tanto affascinante quanto ambiguo, nel corso del tempo la descrizione del paesaggio ha dato il via a discussioni non solo nella storia dell’arte ma anche in altri ambiti – e continua a farlo. In pittura, per esempio, l’indagine spaziale gioca un ruolo fondamentale già a partire dall’opera di autori rinascimentali come Piero della Francesca e Pollaiolo, per poi evolversi nella pittura iniziata da Jan Brueghel e i fiamminghi, passando per il vedutismo nell’era dei Gran Tour sino ad arrivare al paesaggismo inglese di inizi Novecento. In tutti questi casi, il paesaggio diviene “fattore attivante” di un coinvolgimento estetico che trascende la configurazione formale dell’ambiente e – in più – plasma la fisionomia della rappresentazione. Oltre al suo ordine morfologico, dunque, il paesaggio può essere setacciato nell’esame dei singoli ambiti, siano essi sociali, culturali, economici. Un’altra disciplina che tanto si interroga sul paesaggio è – chiaramente – la geografia che, più di altre (e spesso in stretta relazione con la storia dell’arte) ha mostrato l’estrema labilità, difficoltà e vulnerabilità del paesaggio. La declinazione anglofona del dibattito, per esempio, offre un’interessante ripartizione tra i concetti di space e place. La prima definizione collega concettualmente lo spazio a qualcosa di naturale, geometricamente organizzato, dato ed essenziale, in cui i processi spaziali vengono ricondotti a qualcosa di teleologico e misurabile1. Nel secondo caso, invece, l’ambiente viene associato al senso del divenire, è identificativo dell’unione di un punto assoluto nello spazio, preesistente e indifferenziato, con una trasformazione prodotta dall'uomo che – solitamente – si distingue per i significati culturali o soggettivi attraverso i quali viene costruito. Si potrebbe quasi dire che esso diviene artificiale e differenziato, il dove e il come si gemmano, includendo all’interno di un’unica sfera sia aspetti visibili e tangibili di un luogo sia i significati più intimi e soggettivi2. In questo senso, aspetti di mediazione e rappresentazione dell’esperienza diventano cruciali per la trasmissione di significati che – dal personale – diventano universali.
Ritroviamo la combinazione di forma, sostanza ed esperienza in quella che è l’idea di paesaggio nella ricerca di Laura Pugno. In essa, infatti, il paesaggio interpretato come place assume – non in maniera casuale – una posizione centrale. Nata a Trivero, località montana nelle Alpi biellesi, trova familiarità nel collocare la sua indagine artistica nella specificità del paesaggio montano. In questo solco, una curiosità innata e il fascino per la scoperta la portano per oltre vent’anni a confrontarsi con tale oggetto con caparbietà e rigore, nella possibilità di scoprire e conoscere territori nuovi – legati chiaramente alla sfera cognitiva – in cui potersi “insediare”. Nelle sue opere, il paesaggio non è mai concepito come elemento accessorio della rappresentazione, ma viene esplorato in quanto tema autonomo, spunto per una critica alla visione e alla “realtà”. L’analisi spaziale attraverso la figurazione della montagna viene, dunque, elevata a tema di indagine e assunta come figura, dimensione nella quale rintracciare segni materiali e immateriali che uniscono passato e contemporaneo. Un approccio alla non fissità del paesaggio, al suo costituirsi come soggetto attivo, determina un costante interscambio tra istanze soggettive non precostituite, ma che si determinano dinamicamente nel loro inscriversi l’una nell’altra – lettura dopo lettura e esperienza del luogo dopo esperienza. In questo senso, Pugno avvia già dalla fase di progetto di un’opera un vero e proprio processo di ingaggio con l’idea di paesaggio, che sovente cambia anche durante la fase di realizzazione delle opere, portando a risultati tanto inattesi quanto sorprendenti e poetici. Nel saggio Altri sensi, scritto da Lorenzo Giusti per il catalogo della mostra personale di Pugno Museo MAN di Nuoro, si legge che quella dell’artista piemontese è una ricerca artistica «alla base [della quale] c’è la difficoltà a mettere a fuoco un’idea definitiva di paesaggio […]. Non è una ricerca dell’essenza […] è piuttosto il contrario, è il tentativo di leggere sotto forma di paesaggio tutta la realtà, lo sforzo di guardare il mondo in maniera dischiusa, adottando non uno, ma molteplici punti di vista. Un’idea nella quale convergono questioni di natura fisica, fattori antropici e ragioni culturali, e che, come tale, concentra su di sé tutta la complessità del pensiero sistemico, ma senza compiacersene. Un’idea comunque astratta, anche nelle sue espressioni figurative»3.
Nel progetto sviluppato per la mostra, l’artista realizza diversi nuclei di opere che – come sua abitudine – spaziano tra diversi linguaggi dell’arte, investendo fotografia, scultura e installazione.
Gradi di empatia nasce dalla volontà dell’artista di fare un omaggio simbolico alla fotografia e alle tecniche di stampa. Partendo da un’osservazione dei fondi Pellegrino e Marini, in quella produzione raffigurante il massiccio del Monte Bianco, l’artista seleziona diverse stampe fotografiche di grande formato, sulle quali poi compie un gesto che determina la sfumatura di una porzione dell’immagine. A differenza di opere realizzate in passato con una pratica simile, tuttavia, è possibile evidenziare che in questo caso l’artista usa fotografie non proprie per arrivare ad un’immagine fotografica altra che include sia il paesaggio fissato dallo sguardo altrui sia quello conseguente al movimento del proprio corpo. Inoltre, l’azione compiuta non ha come intento iniziale quello di raggiungere un’iconoclastia dell’immagine, quanto quella di simulare il movimento della mascheratura in camera oscura – ossia una tecnica di correzione o modificazione dell’immagine per ottenere un risultato diverso da quello risultante dal processo di stampa. Il movimento del corpo dell’artista, quindi, invadendo anche bordi e confini dell’immagine per sottolineare un movimento singolo e irripetibile, dichiara un raddoppio del tempo e dello spazio. Entrando in relazione conflittuale con la visione sedimentata di tali documenti, Pugno dichiara una riappropriazione dell’immagine che – nell’atto di mascheratura – viene risignificata e liberata in maniera selettiva.
All’origine di altre tre opere, invece, troviamo l’interesse pregresso dell’artista di indagare l’uso dell’immagine del Matterhorn in ambito pubblicitario e della comunicazione in genere. L’elemento culturale nella ricerca della Pugno è di fondamentale importanza e – in questo caso – una sorta di egemonia della visione viene riscontrata nell’immagine, esteticamente perfetta per la sua elegante forma piramidale, della montagna svizzera. Pugno intuisce che l’immagine del Matterhorn è così iconica da determinare delle “appropriazioni indebite” per comunicare non solo il versante e i luoghi a cui appartiene, ma anche valori, prodotti o proposte relative al versante italiano – il Cervino, completamente diverso dal punto di vista morfologico. Da qui l’esigenza dell’artista di verificare quali materiali e rappresentazioni del paesaggio montano sono contenute nell’archivio (nello specifico – nei fondi contenenti le pubblicità delle rispettive montagne) per analizzare il rapporto tra due forme ben distinte – quelle di ciascun versante. Il toponimo italiano, oltretutto, prende origine non solo dal processo di corruzione linguistico conseguente alla traduzione dal latino ma anche da un errore di trascrizione di Horace Bénédicte De Saussure – uno dei primi cartografi del Regno di Sardegna – che allude erroneamente a una somiglianza della montagna con il cervo. Ne scaturisce una serie di lavori che indagano una grammatica della sembianza che vanno a indagare le peculiarità dell’immagine stessa e del suo potenziale percettivo secondo una serie di declinazioni possibili: immagine specchiata, manipolata, occultata e tridimensionale.
Essere due è un’installazione di due specchi che, posti uno davanti all’altro e raffiguranti l’immagine del versante svizzero (Matterhorn) e di quello italiano (Cervino), oltre a mostrare la reale identità di ogni parte, riverbera le immagini ripetendo la sequenza apparentemente all’infinito. Una dentro l’altra, le due forme determinano una finzione culturale che prende luogo nella mise en abyme, nel processo di inabissamento dell’immagine che – a livello concettuale – permette alla stessa di contenere una piccola copia di sé stessa. Come in Quarto potere di Orson Welles, Essere due ci fa interrogare sulla complessità e inafferrabilità dell’idea di (identità) di paesaggio. Quella che lo specchio restituisce è una tipologia di immagine apparentemente inoffensiva, poiché non interpreta il dato, non imposta una traduzione di elementi sensibili: lo specchio registra ciò che lo colpisce nello stesso modo in cui lo colpisce, rimandandoci alla “verità” e rispondendo al principio estetico della somiglianza. In questo caso, Matterhorn e Cervino (la stessa montagna) sono riuniti in una visione bidimensionale – sovrapponendosi l’uno all’altro nello specchiamento – ma allo stesso tempo la forma ne denuncia l’eterna solitudine e l’impossibilità di aderenza “culturale” che è possibile solo nell’inganno e nell’ambiguità della rappresentazione dilatata determinata dallo specchio.
L’indagine dei documenti e materiali d’archivio porta poi l’artista a rilevare che la rappresentazione dominante utilizzata in ambito pubblicitario si avvale in larga misura di riprese ottenute nel versante svizzero della montagna. Questo dato viene rafforzato sia attraverso l’installazione speculare di un campione degli stessi materiali d’archivio appartenenti a Cervino e Matterhorn (dove – come abbiamo già detto – quest’ultimo è rappresentato da una vastità e varietà di materiali rispetto al “collega” italico), e da Perdita di stato, due ritratti scultorei che mettono in risalto i volumi di ciascun versante montano, ma attraverso il collasso della loro massa. Nel processo di realizzazione, infatti, le forme “reali” impresse nel calco in gomma – impronta in negativo del modello – sono state riprodotte senza l’aiuto della valva – ovvero senza utilizzare quel supporto che, nella pratica scultorea, offre la rigidità dimensionale allo stampo. Prendendo in prestito la tecnica di realizzazione dei plastici montani – datata inizi Novecento – Pugno prima costruisce il ritratto dei versanti alpini attraverso l’osservazione di centinaia di immagini e poi ne guida deliberatamente le forme al cedimento.
L’idea di crollo dell’egemonia della rappresentazione– impostata su canoni di facilità comunicativa, immediatezza, impatto – è presente anche in Abused. In questo caso, l’immagine del Matterhorn viene quasi totalmente negata con la sovrapposizione di una spatolata di cioccolata fusa, da una parte uno dei beni di consumo più facilmente associabili al paesaggio montano e, dall’altra, simbolo della voracità comunicativa dell’immagine iconica. Un gesto forte e volutamente ironico che viene rafforzato dal posizionamento di una confezione di Toblerone fuori dalla cornice dell’immagine, ancora una volta a simboleggiare uno sguardo laterale e desacralizzante sull’immagine conosciuta.
In questo senso, il lavoro di Laura Pugno occupa non tanto un paesaggio fisico, ma uno spazio (montano) costruito mentalmente per operare nel quotidiano, offrendone complesse suggestioni per ripensare alle relazioni tra l’uomo e l’ambiente – o almeno la sua rappresentazione.
1. Rob Kitchin, “Space II”, in ROB KITCHIN, NIGEL THRIFT (eds.) International Encyclopedia of Human Geography, Elsevier, Oxford, 2009.
2. Tim Cresswell, “Place: Encountering Geography as Philosophy”, in Geography, Geographical Association, 2008, vol. 93, pp. 132–139.
3. Lorenzo Giusti, Laura Pugno. Altri Sensi, NERO Publishing, Rome, 2013, p. 9.
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